martedì 17 dicembre 2013

Emozioni di carta

L’ennesima bolletta. Ancora? Ma non finiscono mai? Ma mai nessuno che scriva una lettera, usando carta e penna se non, addirittura, carta, inchiostro e calamaio? E magari anche una bella ceralacca? No, nel tempo allora presente più nessuno scriveva lettere. A che servivano? Le emozioni ormai viaggiavano su sentieri invisibili, ineffabili, lungo vie immaginarie, senza odore né personalità, tutte uguali, indistinguibili a tal punto che non importava più chi fosse a scrivere, a volte nemmeno più cosa, ma in quanto tempo il messaggio –fosse anche un insulto– riusciva a giungere a destinazione.
E poi quel giorno mi svegliai con una strana sensazione. Mi era già capitato, quante volte mi era capitato! Una strana sensazione che pervadeva ogni nervo, ogni capillare. Una sensazione che mi faceva battere forte il cuore, perché quel giorno qualcosa sarebbe capitato, qualcosa di diverso, qualcosa di inaspettato o, piuttosto, qualcosa di atteso per anni, un evento che finalmente si sarebbe verificato, rendendomi incredibilmente felice.
Ma per quanto bella e nuova e ogni volta travolgente fosse quella sensazione, puntualmente rimanevo deluso. Alla sera, quando appoggiavo la testa sul cuscino, mi rendevo conto che ormai il tempo era scaduto, che quella sensazione non paventava niente di speciale, certamente non un bel sogno che avrei potuto fare durante il riposo. Di sogni ne facevo tanti, a occhi chiusi e, ancor di più, a occhi aperti. Un sogno non sarebbe certo stato nulla di nuovo, né di speciale. Per questo, mi ero anche abituato a non fidarmi più di questa travolgente sensazione. Perché dare fiducia a un istinto che però non ci azzeccava mai? Perché abbandonarsi al piacere che precede la degustazione di un evento tanto atteso e finalmente giunto che però, alla fine, non si verificava comunque?
Per questo, anche quel giorno, appena percepii quella sensazione, mi resi anche conto di quanto fosse foriera di disillusione, di tristezza, di malinconia. Quella sensazione, nonostante mi facesse gioire per un avvenimento prossimamente futuro, portava anche o, piuttosto, portava solo, una nuova ondata di nostalgia. Per questo, anche quel giorno, non mi volli fidare di quella sensazione sibillina. Mi svegliai. Decisi di rimanere al caldo delle coperte ancora un po’, in attesa del momento in cui –come anni di laboratorio teatrale mi avevano insegnato– mi sentivo veramente pronto a compiere un certo passo, in quel caso, ad alzarmi. Finalmente il momento giunse, mi alzai e cominciai la routine mattutina. Ancora non sentivo niente di strano, il che era ancora più strano, perché normalmente quella sensazione mi coglieva nel primo momento del risveglio. Non potevo sospettare nulla, perciò mi rassegnai tranquillo –quella era dunque una giornata fortunata– a vivere l’ennesimo giorno un po’ vano, senza un programma preciso.
E poi la sentii. Ero in cucina. Il caffè era appena uscito e percepii una strana palpitazione. Sapevo di non dover assumere caffeina, negli ultimi tempi sembrava soffrissi di pressione alta, nonostante il mio problema fosse quasi sempre stato il contrario, ma da un po’ di tempo a quella parte non riuscivo a dire no a una tazzina di caffè, almeno alla mattina. E comunque, quello che mi lasciò stranito fu il fatto di aver percepito la palpitazione ancor prima di avvicinare la tazzina alle labbra. Possibile fossi diventato così intollerante alla caffeina da farmi venire la tachicardia ancora prima di assumerne? Al solo odore di caffè appena fatto? Per quanto strano fossi, di questo ancora non ero capace. E poi, dopo qualche istante, la riconobbi. Capii che quella era la famosa sensazione che mi coglieva di tanto in tanto e che cercava sempre di ingannarmi, o forse era solo il mio spirito di sopravvivenza che stimolava la mia psiche a produrre un simile stato d’animo, quantomeno per poter sperare in qualcosa di diverso, per godere almeno dell’apparenza di una svolta, fino al momento del riposo, che infine mi rivelava la vacuità di quello stato d’animo per cui però ero comunque grato, avendomi permesso di sopravvivere all’ennesima giornata e rendendomi tollerante per la monotonia dei giorni a venire.  E siccome ero preparato al peggio, coltivai quella sensazione, la assaporai, mi ci buttai a capofitto, sperando follemente che qualcosa di nuovo sarebbe finalmente successo, che la mia vita, la mia (non-)routine avrebbe quel giorno subito una forte scossa. Contemporaneamente, però, mi ricordavo che dovevo godere di quello stato d’animo con moderazione, per non illudermi troppo che qualcosa di nuovo sarebbe successo. E mi ricordai anche che, se mai qualcosa di nuovo fosse successo, dovevo stare attento a gioire di qualunque cosa fosse, fosse anche una scossa quasi impercettibile. Se mai quella sensazione, quel giorno, fosse stata realmente foriera di novità, avrei dovuto apprezzare la novità, anche se non si fosse trattato di qualcosa di eclatante. Anche se avesse causato solo una piccola scarica di adrenalina.
Portai la tazzina alle labbra. Attesi prima di bere il primo sorso e mi feci pervadere dall’odore del caffè appena fatto, uno dei miei odori preferiti. Poi bevvi. Mi sarei aspettato un attacco di tachicardia improvvisa, vista la sensazione che già mi girava in corpo e la caffeina che avrebbe fatto effetto di lì a poco. Tutto rimase com’era, però. La sensazione continuava a pervadermi e la caffeina decise che quello fosse abbastanza, che per quel giorno avrebbe semplicemente deliziato le mie papille gustative senza aggiungere effetti collaterali.
La giornata passava tranquilla. Non avevo molto da fare, qualcosa sì, giusto per avere la sensazione di tenermi occupato, tuttavia non era niente di importante. E nonostante tutto la sensazione era talmente forte da scollarmi dalla sedia. Non riuscivo a stare fermo, sapevo che qualcosa sarebbe presto accaduto. La razionalità che avevo guadagnato al mattino sembrava essersi dileguata, lasciandomi lì da solo con uno stato d’animo che mi tendeva come una corda di violino. Scattavo al primo rumore e, quando il gatto comparve dal nulla sul tavolo al quale stavo seduto, la sua coda aveva assunto lo spessore del mio braccio e solo dopo qualche istante mi resi conto di essere letteralmente saltato sulla sedia alla vista del felino, facendo prendere un coccolone anche a lui.
‘Ma cosa mi prende? Possibile che non riesca a controllarmi? Sono qui seduto da ore, ho controllato tutti i mezzi di comunicazione ai quali sono reperibile, niente di nuovo sul fronte occidentale, e allora perché scatto così? Non succederà niente, non ci sono indizi che qualcosa sia in procinto di accadere, solo quella solita sensazione ingannatrice alla quale non devo assolutamente dare ascolto.’ Eppure, quella nuova ondata di razionalità non mi placava. Sentivo di dovermi muovere. Non mi piaceva correre, perdevo il fiato in cinque minuti e non mi avrebbe scaricato abbastanza. Ma potevo camminare. Non avrei avuto molta strada da fare; a me che piaceva perdermi per vicoletti e stradine secondarie vuote e inesplorate, il posto dove abitavo risultava troppo scoperto e facilmente percorribile. Tuttavia non potevo stare fermo. Non mi sarebbe giunta alcuna novità via etere, perché sapevo che –per quanto qualcosa potesse anche succedere– non si trattava di niente di multimediale. Per questo ero ancora più confuso.
Mi risolsi a uscire. Decisi di coprire l’intera distanza percorribile a piedi. Mi infilai le cuffie e partii. Ascoltavo la musica e mi lasciavo trasportare dal ritmo. Cambiavo andatura a seconda del ritmo. Era una delle poche attività che riuscivano a scaricarmi quando ero teso. E camminavo.
Come prevedevo, non mi ci volle troppo tempo a percorrere tutti i sentieri più reconditi, oltre alle vie palesi, della piccola città. Niente aveva attirato la mia attenzione in particolare. Anche di questo ero consapevole ancora prima di intraprendere la passeggiata, perché sapevo che nemmeno di quella natura sarebbe stato l’evento nuovo.
Ma allora, cosa? Ormai avevo terminato le ipotesi plausibili, e anche quelle non plausibili. Avevo già scritto un paio di sceneggiature da Oscar, tutte a mente, ovviamente, ed ero soddisfatto perché almeno quella notte sarei riuscito a dormire, avendo portato a termine il mio dovere di screenwriter immaginario –e non pagato– durante la giornata. Ma nonostante questa rassicurante constatazione, non ero tranquillo. Mi sentivo inquieto. Era questo, piuttosto, a rendermi sereno, stoicamente rassegnato. Perché sapevo che erano i sintomi di quella sensazione che aveva deciso di farmi compagnia per la giornata e che poi mi avrebbe abbandonato, con un po’ di amaro in bocca, alla sera.
Tornai a casa, impercettibilmente più scarico, ma affatto meno all’erta di prima. Poteva sembrare un paradosso, ma anche questo era effetto dell’ingannevole sensazione.
Arrivato al cancello, mi resi conto che nessuno degli altri abitanti della casa aveva ancora controllato la cassetta della posta. Uno non usciva praticamente mai dal cancello principale e l’altro aveva la chiave ma di solito non la tirava fuori  perché chissà dov’era finita. E allora lo feci io. Come sempre. Alzai il coperchio. Buttai un occhio per verificare se la cassetta fosse piena o vuota. Come sempre, mi affidavo al riflesso della parte anteriore sul dorso della cassetta. Quando lo vedevo pieno, anche in quei momenti mi coglieva la stessa sensazione di attesa. Per questo, anche se questa volta lo vidi pieno, non ci feci particolarmente caso, perché la sensazione mi aveva colto già. Tuttavia, percepii una nota stonata in quello stato d’animo così invasivo. O meglio, un acuto. Afferrai il contenuto della cassetta. Al primo tentativo mi cadde di mano, precipitando nuovamente sul fondo. L’impazienza era ancora più percettibile, potevo quasi vederne l’aura circondarmi tutto. Riprovai. Questa volta la presa era più sicura e il contenuto della cassetta rimase stretto tra le dita e il palmo. Lo tirai lentamente fuori. Notai che, nonostante la forma somigliasse a quella di una bolletta o di una di quelle comunicazioni un po’ fumose da chissà quale organizzazione, la busta aveva una consistenza particolare. Anche il colore era insolito. Una busta spessa, di color avorio, con leggere venature più scure. Quasi marmorea. Poi, sul retro, che era la faccia della busta rivolta verso il mio sguardo, notai una strana macchia. Era informe, sembrava in rilievo, ed era di colore rosso sangue. C’era anche un simbolo sopra, sembrava un felino dalla posa regale. Un leone, forse, o una creatura mitologica. Girai lentamente la busta, e scorsi una scritta fitta sulla parte destra. Diverse righe di testo dalla calligrafia sorprendente che sembravano essere state tracciate con un pennino e un inchiostro nero e denso. Sulla prima riga leggevo il mio nome, per intero, e sotto l’indirizzo e tutto il resto. Ancora non volevo cedere, pensavo si trattasse comunque della comunicazione di una qualche organizzazione, solo un po’ più fantasiosa delle altre.
Mi resi conto che stavo congelando. O meglio, stavo perdendo pian piano l’uso della mano destra. Così decisi di entrare in casa, per contemplare al caldo quello strano oggetto. La sensazione, intanto, continuava a pervadermi, ma sembrava quasi prendersi gioco di me. La sentivo crescere come in una risata fragorosa. Sembrava sul punto di urlare, di urlarmi contro che quella volta aveva ragione, persona di poca fede che altro non sono! Ma non volevo cedere. Mi sembrava troppo bello per essere vero. Mi sembrava troppo incredibile perché quella sensazione, quel giorno, mi avesse colto con un motivo, che quel primordiale istinto quel giorno fosse corretto.
Salii le scale. Non mi precipitai alla porta dell’appartamento con furia. Contemplavo quella che avevo ormai capito essere una lettera e mi ascoltavo. Ascoltavo con attenzione le emozioni che si avvicendavano dentro di me. Cercavo di gustare le mie reazioni come fossero un manicaretto di quelli di cui ero tanto goloso. Ed era una delizia.
Come prima cosa, avevo scartato tutte le reazioni negative. Pensieri quali ‘Ma non è quello che ti aspettavi!’, ‘Guarda che non c’è nulla per cui gioire davvero!’, ‘Stai sereno che non è nulla di strepitoso!’ avevano subito fatto capolino nella mia mente. Vedevo le parole scolpite su un marmo simile a quello di cui sembrava essere fatta la busta. Ma avevo anche proceduto alla distruzione di quella statua, avevo scagliato quel colpo che aveva reso inguardabile quella creazione marmorea così perfetta nella sua negatività. Non volevo fosse perfetta. La negatività non lo è mai.
Il titanico sforzo rese possibile la gioia delle ore successive. La prima cosa che realizzai fu che, finalmente, qualcosa di bello, e atteso, era successo. Erano anni che attendevo una lettera. Ammisi di stare trattando quell’oggetto così atteso e prezioso come tutte le comunicazioni che arrivavano solitamente per vie eteree e invisibili, spersonalizzate e senza odore. Sembrava non mi importasse il cosa, né il chi, ma il come. E tuttavia, mi resi conto che non poteva essere niente di spiacevole e nemmeno provenire da qualcuno che mi voleva male. E, infatti, la mia seconda reazione positiva fu trattare quell’oggetto diversamente dalle comunicazioni ineffabili di allora. Lo avvicinai alle narici e inspirai. Inspirai quell’odore di carta vera. Lo feci più e più volte e, quando ne ebbi pieni i polmoni, lo esalai e mi dedicai alla ceralacca. La osservai attentamente, la scrutai per individuarne ogni più piccolo dettaglio. Ci passai sopra un polpastrello, delicatamente, ripercorrendo i contorni di quella che ormai mi ero reso conto essere la figura di un drago.
Questo fece scattare in me un interruttore, che accese la luce di un piccolo sgabuzzino nel mio cervello. Quando la porta di quel bugigattolo cerebrale si spalancò provai una sensazione familiare ma che avevo dimenticato. Ricordi di anni spensierati, di giornate con uno scopo, per quanto ludico, mi tornarono alla mente. Rievocai avventure immaginate, tracciate su carta, il cui esito era deciso da un tiro di dadi. Ripensai a ore spese a creare scenari possibili e non, nell’attesa di scoprire come si sarebbero comportati gli altri, con onestà o con furbizia, con nobiltà d’animo o con bieco egoismo. E risi. Una risata argentina, una risata fragorosa e piena di gioia. Bellissimi ricordi, di persone, oltre che di avventure, di momenti di gruppo, di risate e discussioni che finivano comunque a pacche sulle spalle e risate, mi travolsero e caddi seduto sul divano in preda a una gioia infinita.
Ma ancora non avevo aperto la lettera. Il mittente mi era chiaro, riconoscevo la ceralacca, non per averla mai vista fino a quel momento, ma per averne sentito parlare così tanto. Ma all’epoca di queste narrazioni quella ceralacca era solo un sogno, uno sfizio che, un giorno, quella data persona si sarebbe tolta.  Fui contento di vedere che qualcosa di nuovo, di diverso, poteva sempre succedere. Quando aprii la missiva, tra le mani mi ritrovai parecchi fogli di carta, una carta più sottile ma molto simile a quella della busta, marmorea e dallo stesso odore un po’ polveroso. La calligrafia era la stessa dell’indirizzo. L’inchiostro aveva intriso la trama della carta così a fondo da rendere le parole leggibili da entrambi i lati del foglio. Erano parole incoraggianti. Parole che, oltre a invitarmi fisicamente a una rimpatriata, mi invitavano anche ad assumere un atteggiamento nuovo. Parole semplici e dirette, come era solito nello stile del mittente, il che mi fece sorridere al fatto che alcune cose non cambiavano mai, ma che raggiungevano perfettamente lo scopo –forse ignoto a chi scriveva ma chiarissimo a me che leggevo– di rievocare emozioni perdute, ormai addormentate nei meandri della mia anima, ovunque essa si trovasse. Leggere quelle parole, scrutare quei tratti di pennino, mi fece ricordare quanto bene stessi quando quelle avventure erano all’ordine del giorno. Era esattamente quello di cui avevo bisogno.
Le ore che mi separavano dal riposo passarono veloci. Non risposi subito alla missiva, perché prima volevo godermi attimo per attimo ogni singola sensazione che un mezzo di comunicazione così démodé mi aveva provocato. E poi avevo molto altro da metabolizzare. Per questo, quando appoggiai la testa sul cuscino, cercai di ricapitolare la giornata. Per prima cosa, fui grato perché la sensazione mattutina non si era presa gioco di me ingannandomi nell’attesa di un evento che non si sarebbe palesato. Ma fui grato anche perché si era poi presa gioco di me ridendo a squarciagola e urlandomi ‘Te l’avevo detto! Questa volta ero arrivata per un motivo!’ E poi volli rivivere istante per istante la gioia delle ultime ore. Mi persi di nuovo a ricordare i pomeriggi insieme a ridere, discutere, ridere ancora, immaginare mondi e creature. Rividi i volti, ripensai alle speranze, tentai di indovinare quali fossero diventate realtà e quali no.

E poi mi addormentai, cullato da pensieri trasformati non in parole ma in emozioni, nelle emozioni di una lettera di carta.

mercoledì 4 dicembre 2013

Quel quid in più

Il mio quid è l'arancione.
Il mio quid sono le affinità elettive.
Il mio quid è l'essere un'inguaribile romantica.
Il mio quid è una passione smodata per gli oggetti di design Kartell.
Il mio quid è avere solo due rimpianti nella vita: aver smesso danza classica e violino.
Il mio quid è avere imparato a vivere per conto mio.
Il mio quid è entrare in cucina, aprire il frigo e prepararti una cena in un quarto d'ora.
Il mio quid è sognare di possedere una libreria molto vintage a Parigi.
Il mio quid è sentirmi un'artista lungo i vicoletti del Quartier Latin a Parigi.
Il mio quid è saper piangere di gioia, ma anche di dolore.
Il mio quid è cercare di sentire quello che sentono gli altri.
Il mio quid è amare l'odore dell'aria mattutina in primavera e in autunno.
Il mio quid è avere il pallino della Neverfull di Louis Vuitton, quella originale.
Il mio quid è pensare che in fondo la psicologia serva a qualcosa.
Il mio quid è pensare che in fondo si può essere psicologi di se stessi.
Il mio quid è amare le lunghe passeggiate chiarificatrici.
Il mio quid è amare i lunghi rooibos chiarificatori.
Il mio quid è pensare alla Luna e non poter dimenticare 'Canto di un pastore errante dell'Asia', e il povero Leopardi.
Il mio quid è avere paura del sublime e allo stesso tempo esserne affascinata.
Il mio quid è avere voglia di non dimenticare.
Il mio quid è avere voglia di non dimenticare le nozioni del liceo.
Il mio quid è avere voglia di non dimenticare il tedesco e, se possibile, nemmeno il francese e il portoghese.
Il mio quid è essere pronta a trasferirmi in Scandinavia seduta stante.
Il mio quid è amare il caffè espresso, anche se reinterpretato, ma anche i Frappuccini di Starbucks.
Il mio quid è non voler leggere la Millenium Trilogy.
Il mio quid è aver visto 'Melancholia' e averlo trovato fascinosamente allucinante.
Il mio quid è aver visto 'Mood Indigo' e averlo trovato incredibilmente simile ad 'Alice nel paese delle meraviglie'.
Il mio quid è voler, un giorno, costruire la mia casa a partire dalla biblioteca.
Il mio quid è voler, un giorno, avere nella mia biblioteca tutti i libri che ho letto, AKA: gli amici che ho incontrato.
Il mio quid è amare le emozioni forti, positive e negative, pur di sentire lo slancio della vita.
Il mio quid è sapere che l'uomo è come un pendolo che oscilla tra desiderio e noia e deprimermi per questo.
Il mio quid è sapere quello di cui sopra e certi giorni non pensarci affatto.
Il mio quid è essere meteoropatica, ultimamente, però, al contrario, voglio le nuvole!


Mi piace pensare di avere più d'un quid. Chissà se è così. Mi piace pensare che ogni piccola cosa che mi distingue, che mi ha costituito finora, mi renda diversa da un altro essere umano. Ho sempre pensato di essere diversa, non migliore, ma diversa. Ho sempre sperato di essere diversa, non migliore, ma diversa. Ho sempre cercato di essere diversa, a volte migliore, ma soprattutto diversa.