martedì 17 dicembre 2013

Emozioni di carta

L’ennesima bolletta. Ancora? Ma non finiscono mai? Ma mai nessuno che scriva una lettera, usando carta e penna se non, addirittura, carta, inchiostro e calamaio? E magari anche una bella ceralacca? No, nel tempo allora presente più nessuno scriveva lettere. A che servivano? Le emozioni ormai viaggiavano su sentieri invisibili, ineffabili, lungo vie immaginarie, senza odore né personalità, tutte uguali, indistinguibili a tal punto che non importava più chi fosse a scrivere, a volte nemmeno più cosa, ma in quanto tempo il messaggio –fosse anche un insulto– riusciva a giungere a destinazione.
E poi quel giorno mi svegliai con una strana sensazione. Mi era già capitato, quante volte mi era capitato! Una strana sensazione che pervadeva ogni nervo, ogni capillare. Una sensazione che mi faceva battere forte il cuore, perché quel giorno qualcosa sarebbe capitato, qualcosa di diverso, qualcosa di inaspettato o, piuttosto, qualcosa di atteso per anni, un evento che finalmente si sarebbe verificato, rendendomi incredibilmente felice.
Ma per quanto bella e nuova e ogni volta travolgente fosse quella sensazione, puntualmente rimanevo deluso. Alla sera, quando appoggiavo la testa sul cuscino, mi rendevo conto che ormai il tempo era scaduto, che quella sensazione non paventava niente di speciale, certamente non un bel sogno che avrei potuto fare durante il riposo. Di sogni ne facevo tanti, a occhi chiusi e, ancor di più, a occhi aperti. Un sogno non sarebbe certo stato nulla di nuovo, né di speciale. Per questo, mi ero anche abituato a non fidarmi più di questa travolgente sensazione. Perché dare fiducia a un istinto che però non ci azzeccava mai? Perché abbandonarsi al piacere che precede la degustazione di un evento tanto atteso e finalmente giunto che però, alla fine, non si verificava comunque?
Per questo, anche quel giorno, appena percepii quella sensazione, mi resi anche conto di quanto fosse foriera di disillusione, di tristezza, di malinconia. Quella sensazione, nonostante mi facesse gioire per un avvenimento prossimamente futuro, portava anche o, piuttosto, portava solo, una nuova ondata di nostalgia. Per questo, anche quel giorno, non mi volli fidare di quella sensazione sibillina. Mi svegliai. Decisi di rimanere al caldo delle coperte ancora un po’, in attesa del momento in cui –come anni di laboratorio teatrale mi avevano insegnato– mi sentivo veramente pronto a compiere un certo passo, in quel caso, ad alzarmi. Finalmente il momento giunse, mi alzai e cominciai la routine mattutina. Ancora non sentivo niente di strano, il che era ancora più strano, perché normalmente quella sensazione mi coglieva nel primo momento del risveglio. Non potevo sospettare nulla, perciò mi rassegnai tranquillo –quella era dunque una giornata fortunata– a vivere l’ennesimo giorno un po’ vano, senza un programma preciso.
E poi la sentii. Ero in cucina. Il caffè era appena uscito e percepii una strana palpitazione. Sapevo di non dover assumere caffeina, negli ultimi tempi sembrava soffrissi di pressione alta, nonostante il mio problema fosse quasi sempre stato il contrario, ma da un po’ di tempo a quella parte non riuscivo a dire no a una tazzina di caffè, almeno alla mattina. E comunque, quello che mi lasciò stranito fu il fatto di aver percepito la palpitazione ancor prima di avvicinare la tazzina alle labbra. Possibile fossi diventato così intollerante alla caffeina da farmi venire la tachicardia ancora prima di assumerne? Al solo odore di caffè appena fatto? Per quanto strano fossi, di questo ancora non ero capace. E poi, dopo qualche istante, la riconobbi. Capii che quella era la famosa sensazione che mi coglieva di tanto in tanto e che cercava sempre di ingannarmi, o forse era solo il mio spirito di sopravvivenza che stimolava la mia psiche a produrre un simile stato d’animo, quantomeno per poter sperare in qualcosa di diverso, per godere almeno dell’apparenza di una svolta, fino al momento del riposo, che infine mi rivelava la vacuità di quello stato d’animo per cui però ero comunque grato, avendomi permesso di sopravvivere all’ennesima giornata e rendendomi tollerante per la monotonia dei giorni a venire.  E siccome ero preparato al peggio, coltivai quella sensazione, la assaporai, mi ci buttai a capofitto, sperando follemente che qualcosa di nuovo sarebbe finalmente successo, che la mia vita, la mia (non-)routine avrebbe quel giorno subito una forte scossa. Contemporaneamente, però, mi ricordavo che dovevo godere di quello stato d’animo con moderazione, per non illudermi troppo che qualcosa di nuovo sarebbe successo. E mi ricordai anche che, se mai qualcosa di nuovo fosse successo, dovevo stare attento a gioire di qualunque cosa fosse, fosse anche una scossa quasi impercettibile. Se mai quella sensazione, quel giorno, fosse stata realmente foriera di novità, avrei dovuto apprezzare la novità, anche se non si fosse trattato di qualcosa di eclatante. Anche se avesse causato solo una piccola scarica di adrenalina.
Portai la tazzina alle labbra. Attesi prima di bere il primo sorso e mi feci pervadere dall’odore del caffè appena fatto, uno dei miei odori preferiti. Poi bevvi. Mi sarei aspettato un attacco di tachicardia improvvisa, vista la sensazione che già mi girava in corpo e la caffeina che avrebbe fatto effetto di lì a poco. Tutto rimase com’era, però. La sensazione continuava a pervadermi e la caffeina decise che quello fosse abbastanza, che per quel giorno avrebbe semplicemente deliziato le mie papille gustative senza aggiungere effetti collaterali.
La giornata passava tranquilla. Non avevo molto da fare, qualcosa sì, giusto per avere la sensazione di tenermi occupato, tuttavia non era niente di importante. E nonostante tutto la sensazione era talmente forte da scollarmi dalla sedia. Non riuscivo a stare fermo, sapevo che qualcosa sarebbe presto accaduto. La razionalità che avevo guadagnato al mattino sembrava essersi dileguata, lasciandomi lì da solo con uno stato d’animo che mi tendeva come una corda di violino. Scattavo al primo rumore e, quando il gatto comparve dal nulla sul tavolo al quale stavo seduto, la sua coda aveva assunto lo spessore del mio braccio e solo dopo qualche istante mi resi conto di essere letteralmente saltato sulla sedia alla vista del felino, facendo prendere un coccolone anche a lui.
‘Ma cosa mi prende? Possibile che non riesca a controllarmi? Sono qui seduto da ore, ho controllato tutti i mezzi di comunicazione ai quali sono reperibile, niente di nuovo sul fronte occidentale, e allora perché scatto così? Non succederà niente, non ci sono indizi che qualcosa sia in procinto di accadere, solo quella solita sensazione ingannatrice alla quale non devo assolutamente dare ascolto.’ Eppure, quella nuova ondata di razionalità non mi placava. Sentivo di dovermi muovere. Non mi piaceva correre, perdevo il fiato in cinque minuti e non mi avrebbe scaricato abbastanza. Ma potevo camminare. Non avrei avuto molta strada da fare; a me che piaceva perdermi per vicoletti e stradine secondarie vuote e inesplorate, il posto dove abitavo risultava troppo scoperto e facilmente percorribile. Tuttavia non potevo stare fermo. Non mi sarebbe giunta alcuna novità via etere, perché sapevo che –per quanto qualcosa potesse anche succedere– non si trattava di niente di multimediale. Per questo ero ancora più confuso.
Mi risolsi a uscire. Decisi di coprire l’intera distanza percorribile a piedi. Mi infilai le cuffie e partii. Ascoltavo la musica e mi lasciavo trasportare dal ritmo. Cambiavo andatura a seconda del ritmo. Era una delle poche attività che riuscivano a scaricarmi quando ero teso. E camminavo.
Come prevedevo, non mi ci volle troppo tempo a percorrere tutti i sentieri più reconditi, oltre alle vie palesi, della piccola città. Niente aveva attirato la mia attenzione in particolare. Anche di questo ero consapevole ancora prima di intraprendere la passeggiata, perché sapevo che nemmeno di quella natura sarebbe stato l’evento nuovo.
Ma allora, cosa? Ormai avevo terminato le ipotesi plausibili, e anche quelle non plausibili. Avevo già scritto un paio di sceneggiature da Oscar, tutte a mente, ovviamente, ed ero soddisfatto perché almeno quella notte sarei riuscito a dormire, avendo portato a termine il mio dovere di screenwriter immaginario –e non pagato– durante la giornata. Ma nonostante questa rassicurante constatazione, non ero tranquillo. Mi sentivo inquieto. Era questo, piuttosto, a rendermi sereno, stoicamente rassegnato. Perché sapevo che erano i sintomi di quella sensazione che aveva deciso di farmi compagnia per la giornata e che poi mi avrebbe abbandonato, con un po’ di amaro in bocca, alla sera.
Tornai a casa, impercettibilmente più scarico, ma affatto meno all’erta di prima. Poteva sembrare un paradosso, ma anche questo era effetto dell’ingannevole sensazione.
Arrivato al cancello, mi resi conto che nessuno degli altri abitanti della casa aveva ancora controllato la cassetta della posta. Uno non usciva praticamente mai dal cancello principale e l’altro aveva la chiave ma di solito non la tirava fuori  perché chissà dov’era finita. E allora lo feci io. Come sempre. Alzai il coperchio. Buttai un occhio per verificare se la cassetta fosse piena o vuota. Come sempre, mi affidavo al riflesso della parte anteriore sul dorso della cassetta. Quando lo vedevo pieno, anche in quei momenti mi coglieva la stessa sensazione di attesa. Per questo, anche se questa volta lo vidi pieno, non ci feci particolarmente caso, perché la sensazione mi aveva colto già. Tuttavia, percepii una nota stonata in quello stato d’animo così invasivo. O meglio, un acuto. Afferrai il contenuto della cassetta. Al primo tentativo mi cadde di mano, precipitando nuovamente sul fondo. L’impazienza era ancora più percettibile, potevo quasi vederne l’aura circondarmi tutto. Riprovai. Questa volta la presa era più sicura e il contenuto della cassetta rimase stretto tra le dita e il palmo. Lo tirai lentamente fuori. Notai che, nonostante la forma somigliasse a quella di una bolletta o di una di quelle comunicazioni un po’ fumose da chissà quale organizzazione, la busta aveva una consistenza particolare. Anche il colore era insolito. Una busta spessa, di color avorio, con leggere venature più scure. Quasi marmorea. Poi, sul retro, che era la faccia della busta rivolta verso il mio sguardo, notai una strana macchia. Era informe, sembrava in rilievo, ed era di colore rosso sangue. C’era anche un simbolo sopra, sembrava un felino dalla posa regale. Un leone, forse, o una creatura mitologica. Girai lentamente la busta, e scorsi una scritta fitta sulla parte destra. Diverse righe di testo dalla calligrafia sorprendente che sembravano essere state tracciate con un pennino e un inchiostro nero e denso. Sulla prima riga leggevo il mio nome, per intero, e sotto l’indirizzo e tutto il resto. Ancora non volevo cedere, pensavo si trattasse comunque della comunicazione di una qualche organizzazione, solo un po’ più fantasiosa delle altre.
Mi resi conto che stavo congelando. O meglio, stavo perdendo pian piano l’uso della mano destra. Così decisi di entrare in casa, per contemplare al caldo quello strano oggetto. La sensazione, intanto, continuava a pervadermi, ma sembrava quasi prendersi gioco di me. La sentivo crescere come in una risata fragorosa. Sembrava sul punto di urlare, di urlarmi contro che quella volta aveva ragione, persona di poca fede che altro non sono! Ma non volevo cedere. Mi sembrava troppo bello per essere vero. Mi sembrava troppo incredibile perché quella sensazione, quel giorno, mi avesse colto con un motivo, che quel primordiale istinto quel giorno fosse corretto.
Salii le scale. Non mi precipitai alla porta dell’appartamento con furia. Contemplavo quella che avevo ormai capito essere una lettera e mi ascoltavo. Ascoltavo con attenzione le emozioni che si avvicendavano dentro di me. Cercavo di gustare le mie reazioni come fossero un manicaretto di quelli di cui ero tanto goloso. Ed era una delizia.
Come prima cosa, avevo scartato tutte le reazioni negative. Pensieri quali ‘Ma non è quello che ti aspettavi!’, ‘Guarda che non c’è nulla per cui gioire davvero!’, ‘Stai sereno che non è nulla di strepitoso!’ avevano subito fatto capolino nella mia mente. Vedevo le parole scolpite su un marmo simile a quello di cui sembrava essere fatta la busta. Ma avevo anche proceduto alla distruzione di quella statua, avevo scagliato quel colpo che aveva reso inguardabile quella creazione marmorea così perfetta nella sua negatività. Non volevo fosse perfetta. La negatività non lo è mai.
Il titanico sforzo rese possibile la gioia delle ore successive. La prima cosa che realizzai fu che, finalmente, qualcosa di bello, e atteso, era successo. Erano anni che attendevo una lettera. Ammisi di stare trattando quell’oggetto così atteso e prezioso come tutte le comunicazioni che arrivavano solitamente per vie eteree e invisibili, spersonalizzate e senza odore. Sembrava non mi importasse il cosa, né il chi, ma il come. E tuttavia, mi resi conto che non poteva essere niente di spiacevole e nemmeno provenire da qualcuno che mi voleva male. E, infatti, la mia seconda reazione positiva fu trattare quell’oggetto diversamente dalle comunicazioni ineffabili di allora. Lo avvicinai alle narici e inspirai. Inspirai quell’odore di carta vera. Lo feci più e più volte e, quando ne ebbi pieni i polmoni, lo esalai e mi dedicai alla ceralacca. La osservai attentamente, la scrutai per individuarne ogni più piccolo dettaglio. Ci passai sopra un polpastrello, delicatamente, ripercorrendo i contorni di quella che ormai mi ero reso conto essere la figura di un drago.
Questo fece scattare in me un interruttore, che accese la luce di un piccolo sgabuzzino nel mio cervello. Quando la porta di quel bugigattolo cerebrale si spalancò provai una sensazione familiare ma che avevo dimenticato. Ricordi di anni spensierati, di giornate con uno scopo, per quanto ludico, mi tornarono alla mente. Rievocai avventure immaginate, tracciate su carta, il cui esito era deciso da un tiro di dadi. Ripensai a ore spese a creare scenari possibili e non, nell’attesa di scoprire come si sarebbero comportati gli altri, con onestà o con furbizia, con nobiltà d’animo o con bieco egoismo. E risi. Una risata argentina, una risata fragorosa e piena di gioia. Bellissimi ricordi, di persone, oltre che di avventure, di momenti di gruppo, di risate e discussioni che finivano comunque a pacche sulle spalle e risate, mi travolsero e caddi seduto sul divano in preda a una gioia infinita.
Ma ancora non avevo aperto la lettera. Il mittente mi era chiaro, riconoscevo la ceralacca, non per averla mai vista fino a quel momento, ma per averne sentito parlare così tanto. Ma all’epoca di queste narrazioni quella ceralacca era solo un sogno, uno sfizio che, un giorno, quella data persona si sarebbe tolta.  Fui contento di vedere che qualcosa di nuovo, di diverso, poteva sempre succedere. Quando aprii la missiva, tra le mani mi ritrovai parecchi fogli di carta, una carta più sottile ma molto simile a quella della busta, marmorea e dallo stesso odore un po’ polveroso. La calligrafia era la stessa dell’indirizzo. L’inchiostro aveva intriso la trama della carta così a fondo da rendere le parole leggibili da entrambi i lati del foglio. Erano parole incoraggianti. Parole che, oltre a invitarmi fisicamente a una rimpatriata, mi invitavano anche ad assumere un atteggiamento nuovo. Parole semplici e dirette, come era solito nello stile del mittente, il che mi fece sorridere al fatto che alcune cose non cambiavano mai, ma che raggiungevano perfettamente lo scopo –forse ignoto a chi scriveva ma chiarissimo a me che leggevo– di rievocare emozioni perdute, ormai addormentate nei meandri della mia anima, ovunque essa si trovasse. Leggere quelle parole, scrutare quei tratti di pennino, mi fece ricordare quanto bene stessi quando quelle avventure erano all’ordine del giorno. Era esattamente quello di cui avevo bisogno.
Le ore che mi separavano dal riposo passarono veloci. Non risposi subito alla missiva, perché prima volevo godermi attimo per attimo ogni singola sensazione che un mezzo di comunicazione così démodé mi aveva provocato. E poi avevo molto altro da metabolizzare. Per questo, quando appoggiai la testa sul cuscino, cercai di ricapitolare la giornata. Per prima cosa, fui grato perché la sensazione mattutina non si era presa gioco di me ingannandomi nell’attesa di un evento che non si sarebbe palesato. Ma fui grato anche perché si era poi presa gioco di me ridendo a squarciagola e urlandomi ‘Te l’avevo detto! Questa volta ero arrivata per un motivo!’ E poi volli rivivere istante per istante la gioia delle ultime ore. Mi persi di nuovo a ricordare i pomeriggi insieme a ridere, discutere, ridere ancora, immaginare mondi e creature. Rividi i volti, ripensai alle speranze, tentai di indovinare quali fossero diventate realtà e quali no.

E poi mi addormentai, cullato da pensieri trasformati non in parole ma in emozioni, nelle emozioni di una lettera di carta.

mercoledì 4 dicembre 2013

Quel quid in più

Il mio quid è l'arancione.
Il mio quid sono le affinità elettive.
Il mio quid è l'essere un'inguaribile romantica.
Il mio quid è una passione smodata per gli oggetti di design Kartell.
Il mio quid è avere solo due rimpianti nella vita: aver smesso danza classica e violino.
Il mio quid è avere imparato a vivere per conto mio.
Il mio quid è entrare in cucina, aprire il frigo e prepararti una cena in un quarto d'ora.
Il mio quid è sognare di possedere una libreria molto vintage a Parigi.
Il mio quid è sentirmi un'artista lungo i vicoletti del Quartier Latin a Parigi.
Il mio quid è saper piangere di gioia, ma anche di dolore.
Il mio quid è cercare di sentire quello che sentono gli altri.
Il mio quid è amare l'odore dell'aria mattutina in primavera e in autunno.
Il mio quid è avere il pallino della Neverfull di Louis Vuitton, quella originale.
Il mio quid è pensare che in fondo la psicologia serva a qualcosa.
Il mio quid è pensare che in fondo si può essere psicologi di se stessi.
Il mio quid è amare le lunghe passeggiate chiarificatrici.
Il mio quid è amare i lunghi rooibos chiarificatori.
Il mio quid è pensare alla Luna e non poter dimenticare 'Canto di un pastore errante dell'Asia', e il povero Leopardi.
Il mio quid è avere paura del sublime e allo stesso tempo esserne affascinata.
Il mio quid è avere voglia di non dimenticare.
Il mio quid è avere voglia di non dimenticare le nozioni del liceo.
Il mio quid è avere voglia di non dimenticare il tedesco e, se possibile, nemmeno il francese e il portoghese.
Il mio quid è essere pronta a trasferirmi in Scandinavia seduta stante.
Il mio quid è amare il caffè espresso, anche se reinterpretato, ma anche i Frappuccini di Starbucks.
Il mio quid è non voler leggere la Millenium Trilogy.
Il mio quid è aver visto 'Melancholia' e averlo trovato fascinosamente allucinante.
Il mio quid è aver visto 'Mood Indigo' e averlo trovato incredibilmente simile ad 'Alice nel paese delle meraviglie'.
Il mio quid è voler, un giorno, costruire la mia casa a partire dalla biblioteca.
Il mio quid è voler, un giorno, avere nella mia biblioteca tutti i libri che ho letto, AKA: gli amici che ho incontrato.
Il mio quid è amare le emozioni forti, positive e negative, pur di sentire lo slancio della vita.
Il mio quid è sapere che l'uomo è come un pendolo che oscilla tra desiderio e noia e deprimermi per questo.
Il mio quid è sapere quello di cui sopra e certi giorni non pensarci affatto.
Il mio quid è essere meteoropatica, ultimamente, però, al contrario, voglio le nuvole!


Mi piace pensare di avere più d'un quid. Chissà se è così. Mi piace pensare che ogni piccola cosa che mi distingue, che mi ha costituito finora, mi renda diversa da un altro essere umano. Ho sempre pensato di essere diversa, non migliore, ma diversa. Ho sempre sperato di essere diversa, non migliore, ma diversa. Ho sempre cercato di essere diversa, a volte migliore, ma soprattutto diversa.

domenica 27 ottobre 2013

Elogio dell'Ardore

Un PS ancora prima di iniziare: quell' 'ardore' voleva essere la traduzione latina di 'passione', essendo quest'ultimo l'argomento del post. O voi che conoscete il latino mille volte meglio di me, chiedo venia se ho or ora impropriamente usato cotal termine.

Sono sempre stata una fan sfegatata delle grandi passioni. Mi sono lasciata incantare dalla grande passione di Jack Dawson per Rose DeWitt Bukater sul caro, vecchio (e ormai superinabissato) Titanic. Mi ha lasciato a bocca aperta quella che credo sia stata la passione con cui Jonathan Littell ha scritto il mio libro preferito, Le Benevole, che, per quanto scabroso e narrante una controversissima autobiografia inventata, ha portato me ad appassionarmi talmente tanto al suo fittizio protagonista da credere di aver scorto sulla metro a Parigi un individuo con i lineamenti che gli avevo affidato durante la lettura. E qui, ci vorrebbe una terza passione, tanto per rispettare lo schema di scrittura a triplette che l'altrettanto controverso Prof. Whitsitt ormai anni or sono ci insegnò essere buona norma per la redazione di un CV in inglese. Ma credo che quest'ultimo intervento possa chiudere degnamente la tripletta.

E le mie, di passioni? Dove sono finite? Ne avevo tante, un tempo. O, meglio, c'erano tante cose per cui usavo essere molto appassionata ogni volta che le incontravo sul mio cammino. Idee, film, libri, spettacoli, attività, città, il mondo, opere d'arte e chi più ne ha più ne metta. E il punto, infatti, non è tanto che certe passioni non le ho più. Piuttosto, il punto è che è la passione che nutrivo per certe passioni che mi ha abbandonata. E quindi, in termini più generali, il punto è quando la passione che nutriamo per una certa passione ci abbandona. Quando questo accade, che cosa si fa?

Tornando al fatto che usavo essere una persona molto appassionata, mi viene da pormi un'ulteriore domanda: quand'è che ho smesso di essere appassionata? Quand'è che ho lasciato perdere, ho buttato la spugna e ho rilassato la spina dorsale? Credetemi, quando si è preda di grandi passioni o, meglio ancora, quando si affrontano tante situazioni con grande passione -come, più specificatamente, era mia abitudine fare- è difficile poi vivere giorno dopo giorno con la sensazione che non si è più in grado di provarla, la suddetta passione, quantomeno non per tutto quello che si fa o che si vorrebbe fare.

E allora, in mancanza della passione che muoveva le mie più grandi passioni, ho generalmente finito per tenere due comportamenti opposti: se da un lato la rassegnazione mi ha spesso intrappolata, dall'altro sono stata altrettanto spesso colta da attacchi di esagerazione delle emozioni.

Mi spiego meglio. Una persona che di suo è mossa da grande passione, che affronta la vita con passione (e, si badi bene, con 'passione' non intendo sempre un moto positivo, purtroppo anche la rabbia può essere vissuta con 'passione'), accorgendosi di aver perso per strada questa propria caratteristica, si trova un po' disorientata. Una specie di bimbo sperduto nella giungla della vita dis-passionata. Mi sono appunto accorta di un fatto. Colta da tali momenti di dis-passione, mi sono spesso trascinata giorno dopo giorno in una monotonia rassegnata o, se preferite, in una monotona rassegnazione, aspettando il giorno in cui la passione si sarebbe in me risvegliata e mi avrebbe nuovamente raised up. In altri casi, il che è ancora peggio secondo il mio supermodesto e opinabilissimo parere (e non esagero per intendere il contrario!), ho invece cercato di esagerare quegli stati d'animo che potrebbero portare a una vera passione. Siccome vivere una vita dis-passionatamente è, credo, per una persona abituata a viverla in tutt'altro modo, una tortura cinese se non peggio, solitamente gli stati d'animo da affrontare in situazioni simili sono negativi. E sono quindi gli stati d'animo negativi che ho cercato di esagerare per smuovere la mia assopitissima passione. Ma io mi chiedo, o cara passione, a te che piace tanto star desta e a me che spesso, troppo spesso, manca il sonno, e se facessimo uno scambio equo e solidale? Io ti regalo un po' d'insonnia, ma proprio tutta quella che posso eh?, e tu mi rendi il mio sonno, quello che in quanto essere umano che vorrebbe sopravvivere a domani senza dover pesare un po' troppo sulle esistenze e soprattutto sulla pazienza di coloro i quali devono -ahiloro- aver a che fare con la sottoscritta CI spetta (a me e a quelli che mi devono sopportare) -credo- di diritto. Ed ecco che quindi, dopo questo cortese -spero- appello alla mia passione, mi ritrovavo, come stavo per dire, a essere esageratamente arrabbiata o esageratamente triste. Peggio ancora, anche se questo non è uno stato d'animo, lo ammetto, esageratamente depressa.

Una passione grande, espressione di tante altre mie passioni, è stata da sempre la scrittura. Avevo pensato, poco tempo fa anche, a dire il vero, di profondermi in un elogio alla scrittura. Tuttavia, poi, ho lasciato perdere. E, onestamente, stavo per lasciar perdere anche stavolta. Ma perché non ci hai pensato su due volte e non ti sei resa conto che lasciar perdere sarebbe in effetti stato molto più saggio da parte tua?, chiederete voi che avete  incautamente intrapreso la lettura di cotal intervento. Beh, vi rispondo io, per quanto insulse possano suonare le mie parole, non volevo darla vinta alla dis-passione. Volevo provare un brivido in più che per almeno due buoni motivi non posso provare, per esempio, preparando metanfetamine e rifugiandomi in camper sgangherati in mezzo al deserto del New Mexico (e attenzione agli spoiler NON VOGLIO SAPERE ALTRO, sono arrivata solo alla terza stagione, understand, o voi [ex-]spettatori di Breaking Bad?). Principalmente perché purtroppo non sarei abbastanza scaltra per farla franca così a lungo, pur avendo -probabilmente- una buona spalla su cui contare, e secondariamente perché avevo voglia di esprimere la mia passione immantinente e l'avvio dell'attività poco sopra descritta non sarebbe stato altrettanto immediato.

E tuttavia, devo essere sincera, anche scrivendo queste poche righe senza senso, purtroppo non sono soddisfatta come un tempo. Mi piacciono tante, forse troppe cose, ma non riesco più a portarle avanti tutte insieme. Iniziano anche a piacermi nuove cose, che si aggiungono alle precedenti e non le scalzano via come invece sarebbe molto più comodo, e non sono più in grado di gestire tutto. Ma la cosa più triste è che quindi mi viene da lasciar perdere. E quindi si può dire che per certi versi mi sono abbandonata alla monotona rassegnazione e alla rassegnata monotonia. E allora come fare? Giro la domanda a chi ha deciso di leggere fin qui. Cos'è che ti può smuovere? Cos'è che può far uscire dalla dis-passione e ributtarti a capofitto nella passione? Cos'è che può risollevarti dalla monotona rassegnazione e dalla rassegnata monotonia quando ti coglie?, quell'infame!

Ho ben pensato di cancellare tutto e lasciar perdere, di nuovo. In fondo, mi sono detta, un blog non è il posto migliore dove scaricare i pensieri. Per quello ci sono gli strizzacervelli. O, anche, quaderni a righe che potrei riempire di tutto quello che mi passa per la testa senza stressare il prossimo. Eppure, sento che, per quanto insensato possa essere questo intervento, può darsi che qualcosa smuova. Al momento, non sento alcun moto avviarsi, ma forse arriverà presto. E, nel frattempo, mi godo quello che ho, che, come ho già accennato nel post precedente, non è certo poco né insignificante. E di cui certo nemmeno mi scordo.

mercoledì 23 ottobre 2013

And suddenly, it was Love.

Love IS an achievement.


I was cutting veggies for dinner and suddenly I knew. I mean, I have always known that, unconsciously. But almost a quarter of an hour ago I got it clearly: Love IS an achievement.



The point is that in a world like ours, in a world where everyone keeps asking where-the-freaking-am-I-going, a simple fact like that (i.e. that love IS an achievement) is quite often forgotten. What's the point of living? Is it to pay your bills, to buy stuff, and such and such? Is it to pointlessly travel alone in order to find yourself so that maybe then you'll know what you're supposed to do on Earth, aka how to support world's economy? Is it that? Well, partly. Maybe. Yet, is it really that what many among us ultimately want to achieve? I mean, I'm not underestimating wealth, no, not even that, I'm not underestimating the ability to earn enough to live a decent life and to provide both for oneself and for your loved ones. And yet, this is the point. Your loved ones. But, hold on a second and take a step back with me, would you?



My relationship to Love has always been complex, and I'll tell you why straight away. For some time now, I've been aware that Love has many, many different facets. What I came to understand is that I can at least make a distinction between love and affection. And what I mean when I talk about Love is actually love. Not affection. No offense meant to affection. What I mean by affection is the kind of love you feel for any one who is not the one. The one, on the other hand, is that person for whom I mean love should be felt. No intention to make you agree on something you don't or to say I'm totally and unmistakably right, but Love is Love and that is the achievement I mean.



I am conscious that all I have written up to now may sound nonsensical or, even worse, it may just not sound at all. I'll try my best to actually say something now. So, please bear with me.



The point I'd like to make is again linked to the big revelation I apparently had when chopping salad. There must be someone like me on this planet that has struggled so much and waited so much and experienced so much disappointment in their search for Love and has eventually achieved it. So, I hope I can talk on more than just my behalf. So, I hope I won't be blamed if I write as a 'we' rather than an 'I'. What's the reason behind the fact that we achieve something and then we forget about it? No reason would make sense, anyway, even if there were one. So what I'd really like us all to be aware of is the fact that we should not forget about our achievements just because we've gotten what we wanted. The point is that we actually wanted it so bad. If you want something so bad, why on Earth would you then forget about it or just discard it or even just be OK with having it and still not be happy because you want something else? OK, then, that's another fact to be considered. I've always agreed with Schopenhauer sharing his idea that human beings are trapped within the claws of desire and never feel accomplished. And yet, human beings are sometimes so lucky (or whatever else you may prefer to call it) to see their wishes come true. Among those, Love is not a rare one. So why do we forget about it, lose our ability to see it as a gift, as a miracle, as whatever else you prefer to call it once we achieve it? Why do we even let this happen? An even more important point, though, would be the fact that once we acknowledge the risk (or the fact, in the worst cases) we should just go back to the feeling of wonder we've felt as soon as we realised we had finally achieved what we wanted. After so many disappointments, after so many tears, after so many heartbreaks and as many attempts to fool ourselves thinking we could also be heartbreaker, what we should just keep in mind is quite simple, indeed.



And suddenly, it was Love.



And I'll never forget about it.

domenica 25 agosto 2013

La Bellezza che brucia

Era da tempo che ne volevo discutere. Sono in effetti mesi che ci ragiono sopra. Un giorno mi sono trovata particolarmente convinta e ispirata e mi sono detta: "Oggi è il giorno in cui ne scriverò." E poi i giorni sono diventati due, poi tre, quattro e siamo arrivati a oggi, a quasi più di un mese da quando avevo formulato l'idea. Il punto è che l'idea l'ho avuta qualche giorno prima di rendermi conto che avevo intrapreso un percorso nuovo e, non so per quale mistico incantesimo, l'idea si è evoluta e quello di cui avrei voluto scrivere sembrava non valesse proprio più come prima. Ci ho messo un po' a capire che, in realtà, quello su cui volevo condividere il mio punto di vista valeva ancora, semplicemente avevo raggiunto un'ulteriore consapevolezza. E non mi sono resa conto che questo gradino in più non distruggeva per forza il mio pensiero precedente, semplicemente lo espandeva, forse lo complicava, ma non necessariamente lo deturpava.


Ed eccomi qui, allora, che finalmente vi scrivo della BELLEZZA. Voi direte "Tutta questa manfrina per l'ennesimo concetto inutile, frivolo?" Sta di fatto che ne ho capite di cose su questo frivolo e inutile concetto. E per quanto inafferrabili e incalcolabili siano certi aspetti della vita, c'è una parte di me che non ci vuole rinunciare, che sa che ci sono, che sono presenti anche se non si vedono, che sono intriganti anche se non si misurano. E uno di questi è la Bellezza. Ora, quante cose si dicono sulla bellezza e quante definizioni ci sono per la stessa? Tante. C'è chi dice che la bellezza è oggettiva, chi invece pensa che vari da persona a persona. C'è chi interpreta la bellezza forse solo come una caratteristica di un individuo. Ma la bellezza la si può trovare un po' ovunque nel mondo. 



Prima di lanciarmi in ulteriori disquisizioni, però, permettetemi una puntualizzazione. Se questo intervento può suonare in effetti frivolo, troppo roseo, troppo ottimista, se può sembrare manchi di considerazione verso tutto quello che bello -in un senso o in un altro- purtroppo non è, chiedo scusa. Posso giustificare un simile atteggiamento di apparente menefreghismo nei confronti del negativo, triste, doloroso, sfortunato e chi più ne ha più ne metta solo in quanto strategia difensiva che il mio organismo ha deciso di mettere in atto in queste ultime settimane. Per svariati motivi con cui non sto qui a tediarvi, sono come stata sottoposta all'iniezione di un siero di positività per cui, nonostante io sia ben memore di chi sta peggio di me, del fatto che molte cose nel mondo stanno andando diversamente da come molti desidererebbero, del fatto che non è sempre rose e fiori e di pensieri similari, beh, nonostante questo, sono fisicamente e mentalmente impossibilitata a vederla così male come dovrei. Per dirla in altro modo, forse più comprensibile e opportuno, a vederla tanto realisticamente quanto dovrei. 



Detto questo, però, passiamo a 'sta tanto citata Bellezza. 



L'idea originale mi è poppata out un pomeriggio, mentre scorrevo vari link su FB e Pinterest. Ed ecco che casca l'asino. Ho appena nominato due delle cose apparentemente più inutili e frivole che l'uomo abbia deciso di inventare. Ma cercate di seguirmi nonostante tutto :) Dicevo, l'idea originale è scaturita mentre visionavo svariate immagini di cose, case, altri luoghi. Più ne vedevo e meglio mi sentivo. Più ne trovavo e più mi rasserenavo. Più ne scoprivo e più mi dicevo quanto bello sarebbe poter rimirare dal vivo un paesaggio, godere del colore delle pareti di una camera, riappendere nell'armadio quel fantastico vestito dopo averlo appena finito di indossare, per non parlare del rimettere a posto quell'odoroso e antico libro in una biblioteca di odorosi e antichi libri come lui. E mi sono detta: "Amare la Bellezza è un pregio e una maledizione." Chi di bellezza si vuol circondare, spesso deve anche disporre di mezzi adeguati. Purtroppo moltissime cose al mondo hanno un prezzo e ovviamente libri, vestiti e anche colori per pareti non sono cose che ci si può procurare offrendo nulla in cambio. 



La considerazione è stata il primo passo verso il desiderio di voler indagare quest'arma a doppio taglio che è il gusto. Ovvio che i gusti variano da persona a persona e a volte da periodo a periodo della vita di una sola persona. Perciò, quando parlo del gusto parlo di ciò che piace a ciascuno di noi, qui e ora, senza esprimere alcun giudizio di valore. E quindi, all'epoca, avrei semplicemente avuto piacere ad annunciare al mondo il fatto che è meraviglioso poter dire che ci piace questo e quello, x e y, che vorremmo circondarci di tutto quello che troviamo bello. E avrei anche voluto aggiungere che, purtroppo, spesso, le cose che ci piacciono sono troppe ed è difficile metterle insieme tutte in un lasso di tempo ragionevole. Ma poi, dopo poco, mi sono accorta di un'altra cosa ancora. E il mio pensiero, l'idea originale si sono evoluti. Dichiarare quanto sia bello e allo stesso tempo insopportabile il fatto che tante cose ci piacciono e che vorremmo esserne costantemente circondati non era più esattamente quello che pensavo. 



Quello che mi sono ritrovata a pensare, e su cui avevo già anche molto, molto prima rimuginato, è che questa tanto agognata Bellezza non bisogna andare dall'altra parte del mondo per trovarla. Mi sono accorta che, spesso, basta guardarsi intorno per vedere qualcosa di bello. E in questo caso, anche se non sempre, e la prima libreria che ho scorto a Parigi mentre con la navetta ci si dirigeva dallo Charles De Gaulle al centro città ne è la prova lampante, molto spesso questa trafiggente Bellezza la si può cogliere in un campo di girasoli nel pieno di una giornata di fine luglio, nell'azzurro del cielo che non puoi osservare se non con una mano che ti ripari dalla sprizzante luminosità, nel profumo degli alberi che costeggiano una strada che altrimenti ti sembrerebbe desolata. Scusate tanto, non posso denigrare la libreria di Parigi che ha ufficialmente dichiarato quella città sede di un pezzo della mia anima, una specie di Horcrux buono, d'altro canto però non posso -e credo sia giusto così- dire che le cose belle sono solo frutto del talento umano. Anche se, a dirla tutta, chi si impegna è anche capace di capolavori che non richiedono per forza l'erculea fatica di concepire un complicato arazzo o qualunque altra cosa che ognuno di voi trova bella -va bene anche una teoria matematica, qui non ci si formalizza- e per cui generalmente serve poco più che un quaranta minuti per impacchettarla. E sto parlando, per esempio, degli odori della cucina. 



Anche questo è un ulteriore dettaglio sul quale mi volevo soffermare una volta deciso di scrivere della Bellezza. Ovvero, i cinque sensi. A parte tutto ciò che si intende come intellettualmente bello e che, a titolo personale, reputo un po' più complicato ma comunque sempre molto affascinante (quanta Bellezza può esserci nei sentimenti, negli stati d'animo, delle emozioni? E tutto questo non è sempre scontato sia frutto soltanto della percezione fisica, ma poi, come sempre, è un'opinione, e in quanto tale... opinabile -e permettetemi di dire che queste sottigliezza linguistiche che quasi certamente a molti suoneranno insopportabili sono per me causa di un sollazzo intellettuale non da poco), a parte quello che si percepisce diversamente che con naso, occhi, bocca, superfici tattili e orecchie (scordo qualcosa? Mah...), dunque, è per me fonte di ineguagliabile Bellezza. Per quanto non dimentichi ci siano viste, odori, suoni, percezioni sgradevoli ognuno a modo proprio, e per quanto tutto questo si declini diversamente a seconda di ciascuno di noi, è innegabile che ci basta aguzzare come un felino tutto quello di cui sopra per scoprire quanto il mondo ci circondi di Belezza in ogni dove. Due settimane fa ho scoperto quanto mi mancava l'odore del sugo che preparava mia nonna e che sono certa di non aver mai sentito uguale fino al momento in cui, appunto due settimane fa, sono passata da quella cucina che me lo riproponeva uguale uguale, solo generato da mani diverse. E lo stesso mi è capitato oggi, passando per le strade deserte di questa Imola di passaggio e odorando patate al forno al rosmarino.



E poi, però, ci sono anche quei magnifici odori -persevero lungo questa strada, almeno per il momento- che sono così buoni che però ti fanno male, ti danno fastidio. Mi capitava di sentire profumi, e quindi in questo caso si tratta del frutto del talento umano mescolato ad altro talento umano che ha realizzato cosa sarebbe occorso per produrre un così raffinato aroma, profumi, dicevo, che mi ricordavano di qualcosa che mi mancava. Mi piacevano tanto che avrei voluto averli sempre attorno ma urlavano allo stesso tempo quanto in quel momento fosse impossibile per me averli attorno. Mi ricordavano della mia condizione di desiderio frustrato. E poi, invece, ci sono anche quelle cose che sono così Belle da fare male non perché ti ricordano qualcosa che non hai, ma perché sono così Belle da essere insopportabili. Ed ecco l'ultimo step al quale è giunta l'evoluzione della mia idea originale. La Bellezza che fa male.



L'ultima volta che mi è capitato? Poco fa, durante una lettura. Le parole, messe così come erano, il ritmo che creavano mi facevano chiaramente immaginare la persona che ci aveva speso tempo e talento per metterle insieme. E il risultato è talmente perfetto da essere estremamente piacevole da leggere ma anche dannatamente insopportabile per farlo fino alla fine. Questo è un esempio di quella Bellezza che in questo esatto momento mi rendo conto di poter chiamare Bellezza da assumere a piccole dosi, responsabilmente. Mi sono resa conto che, così come esiste una soglia del dolore, esiste anche una soglia della Bellezza sopportabile. E mi sono resa conto di quanto la mia sia relativamente bassa. E per quanto da un lato la cosa sia anche un po' triste, penso che al contempo sappia essere anche una cosa meravigliosa. Ok, mettendola così può suonare estremamente megalomane, ma mi fa pensare di possedere una certa sensibilità il fatto di arrivare a non sopportare quello che trovo essere estremamente, dolorosamente Bello. O meglio, il fatto di concepire che esistano situazioni, cose, viste, tutto quello che come Bello può essere etichettato che sia insopportabilmente Bello, che sia impossibile poter apprezzare in tutta la propria Bellezza per un lasso di tempo abbastanza lungo da fartela respirare tutta. 



Questa è la Bellezza che però, paradossalmente, mi piace di più. E ce n'è tanta, anche se a volte ho un po' paura a incontrarla, perché temo di non essere abbastanza resistente da inalarla in una volta sola. 

venerdì 12 luglio 2013

Mind your Ps and Qs. Please. Thank you.

Sapete, è più facile di quel che si pensa. O almeno, gli inglesi lo sanno bene. Loro. Cosa? Quanto sia importante l'essere 'polite'. Me ne sono accorta proprio ieri, camminando per Bologna. Passavo accanto ai tavolini di uno dei mille posti che nella stagione estiva decidono di portare un po' di allegria tra le strade della Dotta e che ospitano commensali non sempre premio Nobel della cortesia (ma questo è vero ovunque, mi raccomando, mica solo a Bologna!). A me, comunque, ieri, è andata bene. Come dicevo, passavo accanto a uno di questi tavolini e la ragazza seduta a uno dei due capi lancia senza pensarci troppo su la cicca della sigaretta ormai finita. ...E? E ovviamente quasi mi centra i piedi. 



Mi giro e lei fa: "Scusa!" 




Io accetto con un gran sorriso e continuo per la mia strada. 




Ora, non dico che una misera parolina di 5 lettere possa essere abbastanza per alleviare dolore, pena e rabbia se il torto subito è molto più grave di una sigaretta finita ma non spenta che ti ha quasi centrato i piedi. Però, personalmente, conta molto davvero. Che siate d'accordo o meno (tenetelo a mente: qui volano pensieri!), 'scusa' è una parola magica che a volte 'does the trick' (vi avevo detto che prima o poi sarebbero arrivate le sperimentazioni. Ebbene, si comincia con quelle linguistiche). Tante volte mi sono scontrata con passanti disattenti, o meglio con i loro bagagli. Beh, quelli che mi hanno chiesto scusa, sicuro neanche forse, non li ho certo mandati al diavolo. Ripeto, ovvio che c'è torto e torto, ma non è difficile essere un po' più attenti agli altri e rendersi conto che ognuno ha diritto al proprio spazio. E se lo si invade penso sia buona abitudine riconoscerlo con tante scuse. Ovvio, non serve profondersi in servili inchini e giurare eterna obbedienza o strapparsi i capelli per chiedere misericordia. Basta solo chiedere scusa. Gli inglesi lo fanno. E gli americani pure! Se avessi dovuto fare un conto di tutte le volte che ho sentito pronunciare la parola 'sorry' sul campus di Chapel Hill avrei certo ottenuto una cifra alquanto significativa (forse sono solo io, ma noto un orribile calco dall'inglese. Cari amici traduttori, sempre che siate tra quelli che si imbattono in questi scritti e hanno anche il fegato di leggerli fino in fondo, vi chiedo scusa. Ecco, vedete?!?!?). Certo che un conto è 'meaning it seriously' e un conto è dirlo per abitudine. E forse, dicendo che basta sentire quella magica parolina per sentirsi meglio anche se chi la pronuncia non lo intende proprio sul serio, mi contraddico rispetto a quello che ho affermato l'altra volta sull'essere sempre sinceri con se stessi e il non prendersi in giro, ma credetemi che ha dei poteri straordinari. Ok, lo ammetto, mi hanno detto un sacco di volte che sono una che si scusa troppo. Lo confesso, me l'hanno detto anche negli Stati Uniti, dove quel 'sorry' superabusato mi ha comunque piacevolmente sorpresa. Quando me lo dissero in Germania non ci rimasi troppo stupita. Lì 'Entschuldigung' non vuol dire nulla. Cioè, manco sanno che esiste quella parola! Ed era proprio questo uno dei motivi per cui non vedevo l'ora di tornare a casa e depurarmi un po' dalla scortesia tedesca! Ovviamente questo prima delle vacanze di Natale, perché già due settimane dopo non vedevo l'ora di fare il viaggio inverso, così come una volta tornata in Italia a febbraio in via definitiva. Ma tant'è. 




Differenze culturali a parte, penso che un uso più massiccio della parola scusa, e intendo in banalissime situazioni come anche il lanciare una sigaretta dove non si dovrebbe, migliorerebbe tante cose, tra tutti. E comunque, permettetemi di dire che ho sparato anche una grossa fesseria. Differenze culturali a parte,  un corno! E sapete perché? Perché sono proprio quelle che rendono quasi impossibile ai tedeschi pronunciare la magica parolina dal suono più che marziale. E sono di nuovo quelle che rendono parchi in questo anche gli italiani. Con ciò, non sto sparando a zero su italici e teutonici solo perché non usano la parola 'scusa' quanto mi piacerebbe facessero, semplicemente il farlo darebbe la sensazione di essere coscienti dell'altro, del fatto di non essere i soli a calpestare il suolo a questo mondo e probabilmente ci renderebbe molto meglio disposti gli uni verso gli altri. Quando si dice 'se qualcuno non ti fa un sorriso donagli il tuo' è perché se si manifesta all'altro di sapere che esiste, forse anche l'altro farà lo stesso con te. Ora, che in giro ci siano dei trogloditi che se sorridi loro magari ti mandano a quel paese o ti dicono "Cosa ridi?" (tanto per essere fini) non lo metto in dubbio. Vero è che non tutti siamo così. E tuttavia se lo facesse un numero maggiore di persone, se un numero maggiore di noi fosse più attento agli altri, ora sorridendo, ora chiedendo scusa se pestiamo un piede a qualcuno o se lo colpiamo violentemente (e altrettanto involontariamente) con i nostri svariati bagagli perché stiamo andando più che di fretta, beh magari ci sveglieremmo tutti con un po' più di fiducia nel prossimo, nel mondo, in tutto. Ok. Forse dovevo dirlo subito che ho sono particolarmente affezionata alle associazioni libere e quindi ecco perché da una così insignificante parola (cioè, insignificante è esagerato, diciamo corta) come 'scusa' sono finita a parlare di una maggiore fiducia nel prossimo e nell'esistenza tutta. Ma a prescindere dalle mie preferenze filosofiche, pensateci su, non vi sentite meglio anche voi se qualcuno vi pesta un piede, se ne accorge e vi chiede scusa? Nel mio caso, poi, se sono io dalla parte del torto e chiedo scusa mi sento meglio in generale. Magari sto mascherando un atteggiamento egoistico (sicuramente nel caso in cui l'altra persona non sente nemmeno che le ho chiesto scusa e nemmeno si accorge che ho invaso in qualche modo il suo spazio e io però mi sento la coscienza pulita solo perché ho chiesto scusa e mi sono accorta di lei) però per esperienza posso dire che funziona. 




So what? Well, I just thank you if you say 'sorry' when accidentally throwing a still smoking cigarette at my feet :D




Been a pleasure as always.

Sissi

venerdì 5 luglio 2013

Regole del vivere bene, n.1: sii sincero con te stesso

"La verità mi fa male lo so", così cantava Caterina Caselli. E magari aveva anche ragione. Per certi versi. Forse. In certi casi. Può anche darsi. Ma in tutto questo tempo in (ri-)cerca dello swing, stupendosi ogni volta di essere qualcuno che non conoscevo, chiedendosi dove stessi andando, cosa stessi facendo, perché, se stessi facendo la cosa giusta e infine riuscendo -davvero?- a fare la cosa giusta, ho finito per capire che meglio dirsi le cose come stanno, da subito e senza mezzi termini. Non è che per forza si debba trattare di grandi temi della filosofia. Ma proprio per niente. Molto più spesso di quanto si creda -e forse si voglia- la vita pone l'essere umano davanti a situazioni apparentemente insignificanti che però devono comunque essere affrontate con la stessa sincerità di come si dovrebbe affrontare un interrogatorio presso una stazione di polizia -ok, guardo troppi telefilm, lo so- meglio dire la verità. Forse non ti crederanno (e sto sempre immaginando una situazione da film), cioè, dipende da chi ti trovi davanti, se persone con un briciolo di buon senso o no -argomento che magari un giorno popperà out su una di queste pagine virtuali- ma in generale almeno si sarà a posto con la propria coscienza. Ci si potrà alzare la mattina con la certezza di aver fatto e detto la cosa giusta. Ovvero, la verità.

Ok, vi starete domandando: Ma sicura che disquisire di onestà, di verità, di cosa sia giusto o sbagliato, sia proprio l'espediente migliore per attirare l'attenzione di chiunque abbia voglia di leggere queste righe e, magari, tenersela pure cara? D'altro canto, però, anche la verità è uno degli aspetti della vita quotidiana. Come ho detto prima, non bisogna per forza essere dei Nietzsche o dei giuristi o dei teologi per parlare di verità. Ci si imbatte nel potere della verità ogni giorno della propria vita, ogni piccolo gesto, ogni risposta a qualunque domanda può essere vera o falsa. E qual è quella giusta? Secondo la mia modesta opinione -evviva, esageriamo pure con le frasi fatte! Tutto il contrario di quello che sono abituata a fare quando scrivo, ma il momento della sperimentazione forse arriverà in futuro- penso che, a prescindere da chi ci si trova davanti, il gesto giusto e la risposta giusta siano quelli più veri. Il senso che do all'attributo 'vero' è 'autentico, proprio, personale, se vogliamo'. Con questo intendo che qualunque cosa sia ciò che sentiamo, se abbiamo voglia di fare qualcosa o meno, se pensiamo X invece che Y e così via, beh, quella è la risposta giusta, perché è vera, o meglio, autentica. Dire bugie è più facile di quanto si pensi. E con bugie intendo tutto ciò che non corrisponde al vero, all'autentico. 

Dico tutto questo perché 24 anni non saranno tanti, ma sono già un po'. E qualcosina ho vissuto, che mi sia piaciuto o meno, che sia stato facile o meno. Ma sono contenta, perché tutto quello di cui ho avuto esperienza mi ha fatto capire tante cose. E, tra le altre, anche che bisogna sempre essere sinceri con se stessi. E ovviamente con gli altri. E quindi, se non vi va di fare qualcosa, se pensate Z invece di K, se vi sentite così e non cosà, potrò facilmente sbagliarmi e liberissimi di pensare il contrario, ma penso sia necessario, sia benefico dirlo. Si tratta di un beneficio plurimo. Si evita di fare quello che non si vuole, ci si sente liberi di pensare Z invece di K e si fa onore alla propria psiche. Eh sì, perché dando spazio al non-autentico invece che a ciò che realmente si vuole, pensa e sente, si travia la visione di se stessi, si rischia di finire per convincersi di fare qualcosa che non si vuole, di pensare qualcosa che non si pensa, di non sentirsi nel modo in cui ci si sente. E d'altra parte, penso sia anche una forma di rispetto nei confronti degli altri. Ogni piccolo gesto, ogni parola non-autentica, potranno forse fare la felicità dell'altro per qualche breve -a volte brevissimo- periodo, ma a lungo andare, chi è davvero in grado di dirsi regolarmente qualcosa che non è? Di vivere in un modo che -seppure a un livello super-inconscio- si sa non corrispondere al modo in cui si vorrebbe vivere? Si potrebbe controbattere che la stia facendo troppo facile. Ovviamente non posso parlare per l'universo mondo, ognuno ha le proprie vicissitudini grandi e piccole e ognuno è libero di agire come preferisce e forse capita più frequentemente di quanto si pensi che purtroppo sono le circostanze a decidere per noi. E tuttavia, la mia esortazione sarebbe comunque di attenersi alla verità, di essere autentici in ogni singolo aspetto della propria vita ogni volta che la vita ci permette di scegliere liberamente e ci dà la possibilità di esprimere la nostra volontà, il nostro pensiero, il nostro stato d'animo.

Bene, fine della tirata filosofica. Questo però, come dice il titolo del blog, è uno spazio dove i pensieri volano liberi. E in fin dei conti non penso che l'idea di qualcuno debba invariabilmente restare uguale a se stessa nel tempo. D'altronde, io stessa tradivo molto spesso questa mia consapevolezza e, anche se forse ho avuto la sensazione che questa fosse la via -almeno per me, non l'ho mai effettivamente messa in pratica come adesso. Non voglio fare quel che non voglio, non voglio pensare quel che non penso, non voglio sentirmi come non mi sento. O meglio, non voglio dare l'impressione a me stessa né soprattutto a chi mi sta intorno di stare facendo qualcosa mentre invece non ho voglia di farla, di pensare una cosa invece che un'altra perché l'altro sta meglio se sa che io penso X invece che Y, di sentirmi in un modo e invece dentro reprimere tutt'altro stato d'animo (questo perché, personalmente, posso anche adorare la recitazione teatrale, ma a recitare nel mio quotidiano sono la peggior performer!). E quindi, più che posso, lascio spazio alla verità. Mi lascio essere autentica. E questo forse può far male a qualcuno per un po', e magari anche io mi insulto dicendomi che avrei potuto rispondere diversamente e interrogandomi su come si possa sentire chi ha assistito a questo mio eccesso di autenticità, ma penso che in fondo e in realtà sia sano per qualunque tipo di relazione ci sia con questo altro individuo. Perché essere autentici con se stessi e di conseguenza con gli altri permette a tutte le persone coinvolte nella detta relazione di comprendere cosa si può fare e se lo si può (e vuole) fare nel caso ci sia qualcosa da rimediare o sia semplicemente il caso di aggiustare il tiro. E una volta fatto... beh, les jeux sont faits e si tutti molto meglio. 

Che condividiate o meno il mio punto di vista, mi ha fatto comunque piacere esplicitarlo. E, a chiunque legga, mi farà piacere -se vi va- conoscerne di diversi!

A bien tôt,
Sissi

giovedì 4 luglio 2013

Hi, my name is...

Ed ecco che anche io mi ci sono fatta trasportare. Dove? Nel vasto mondo del blogging. Ok, forse la cosa non è più così in voga come qualche anno fa ma, a onor del vero, non posso giurarci perché ho resistito tanto al fascino del blogging e non ho ancora ben chiaro quanto in effetti sia pratica diffusa creare e curare un blog. E quindi... eccomi qui, comunque, solo perché è adesso che mi sento ispirata, è adesso che sento questo desiderio, questa vena creativa che, a differenza del passato, mi piacerebbe ora condividere. 


Scrivere è un'attività che ho sempre amato. Ho iniziato con il diario che ci hanno espressamente chiesto di tenere mentre io ero in seconda elementare e poi ho continuato. Ho iniziato a trattare il diario come il mio migliore amico piuttosto che averne uno in carne e ossa (triste, dite voi? Mah, forse solo un pochino). Quelle povere pagine ne hanno sentite di tutti i colori. E poi ho continuato. A scrivere ovunque. Qualunque pezzo di carta si trovasse a portata di mano nel momento in cui avevo bisogno, sentivo la necessità fisiologica di scrivere (e solitamente accadeva di notte, colpa dell'insonnia da eccessiva attività cerebrale) diventava il mio migliore amico e io ci scrivevo sopra, ci riversavo tutto quello che non potevo dire ad anima viva -per un puro motivo logistico, credetemi, non è bello svegliare nessuno alle due di notte perché una tredicenne in crisi di noia non sa proprio dove infilare i propri pensieri e godersi una bella notte di sonno. E poi, quando la carta ha iniziato a scarseggiare, io ho iniziato a usare il pc più compulsivamente, allora la tastiera qwerty è diventata la mia tastiera di pianoforte sulla quale le mie dita sfrecciavano veloci in perfetta sincronia con i pensieri, per riversare tutto quello che mi rubava il sonno su una memoria esterna, un supporto che avrebbe portato il fardello al posto mio e mi avrebbe alleggerito l'esistenza almeno un pochino. Ed è così che è nata la mitica cartella "Grafoterapia", la soluzione a tutti i miei problemi. C'è qualcosa che non va? Perché non lo scrivi? E ha funzionato. Sempre. E continua a funzionare. Anche se adesso è tutto un po' diverso. Prima di tutto adesso ho deciso di buttarmi su un blog, che -piaccia o meno- non vorrei tenere privato. Ok, cercherò di non importunare né imbarazzare nessuno e se un pensiero mi ruberà il sonno di nuovo ci penserò da sola a sbarazzarmene. Perché come dice il sottotitolo: qui volano sì pensieri, ma pensieri scaturiti da dettagli, non pensieri deleteri per la salute mentale di chiunque. Spero quindi di non risultare né noiosa né inopportuna. 



Ah, una cosa soltanto. Mi capita, a meno che non sia cambiato anche questo, di non apprezzare la concisione. Perciò, chiedo subito scusa se mai mi capiterà di dilungarmi troppo. Chissà se riuscirò a cedere alla tentazione senza diventare noiosa. Il giudizio, come si suol dire, ai posteri. 



Enjoy (hopefully)!

Sissi