mercoledì 19 febbraio 2014

Su una cosa aveva ragione Dante

Stavo tranquillamente scrivendo per i fatti miei, una di quelle mie sedute grafoterapiche, come piace chiamarle a me, per il mio solo beneficio e, a volte, per svuotare il cervello. Certo, ultimamente uso questi momenti di ispirazione più per cercare di conoscermi meglio, e di solito dopo che una tempesta ha sconvolto le mie capacità intellettive, per fare il punto, per mettere nero su bianco certe conclusioni. Vero, anche prima usavo questi momenti come presa di coscienza di me stessa, ma di recente sono più un fine che un mezzo, una cartina di tornasole per mettere dei punti fermi nella mia esistenza, visto che ultimamente mi sento un po' all'arrembaggio e la pirateria non è mai stata il mio forte.

A ben vedere, definendo queste sedute cartina di tornasole, forse sono comunque uno strumento, di certo però rientrano nella parte finale della presa di coscienza di sé, mentre all'epoca lavoravano nel pieno della catena di montaggio dalla quale sarebbe saltata fuori la nuova me.

La cosa interessante è che stavo appunto scrivendo for my own sake quando mi sono lanciata in considerazioni più generali, su due argomenti che mi piacciono un sacco: linguaggio e pensiero. Non a caso, ho per un certo periodo sognato di diventare filosofa ermeneutica, ma tant'è. Scrivendo per me stessa, cercando conferme della mia ultima evoluzione esistenziale, dicevo, ho intrapreso un'elucubrazione che -modestia a parte- mi viene da definire alquanto interessante. Tutto risale agli ormai più che remoti anni del liceo, quando una delle mie prof. preferite, ovviamente quella di italiano e latino, usava spiegarci la Divina Commedia, senza che però io ne risultassi mai troppo convinta. Era un periodo in cui amavo questionare, ancora più che adesso, un periodo in cui difendevo le mie idee con le unghie e con i denti. Il mio personale, e certamente anticipato, '68 del XXI secolo. Allora, appunto, Dante e io non andavamo molto d'accordo. Mi ha sempre dato l'impressione di essere uno che voleva saperla lunga, apparentemente senza alcun titolo per farlo, se non un'accesa fantasia e molta, molta ispirazione. Tuttavia, su una cosa sola riuscivo a trovarmi in sintonia con la sua opinione. E proprio questo è il succo di ciò che è saltato fuori dalle mie considerazioni sull'ultima tempesta da poco placatasi nella mia scatola cranica.

Il contesto in cui queste riflessioni sono scaturite dipende da quanto credito possiamo e siamo in dovere, o nelle condizioni, di dare a un giudizio altrui su noi stessi. Dicevo (e cito me stessa):
"Per rimediare, occorre, anzi no, per prevenire, occorre, dicevo, essere più riflessivi, meno impulsivi, e digerire meglio le cose prima di offrire un boccone all'altro. Sono un po' americana in questo e mi sento che se non si ha subito la risposta pronta si fa la figura degli idioti, ma riflettere non significa non avere un'opinione o non sapere cosa dire o non avere capito. Significa essere più sensibili, o sensati, e saper dire una cosa ragionevole, attendere il momento in cui il concetto è finalmente formulato bene ed esprimerlo di conseguenza. Ho sempre dato ragione a Dante solo su una cosa: non siamo capaci di esprimere mai quello che pensiamo esattamente come lo pensiamo, saremo sempre fraintesi o parzialmente incompresi, perché le parole spesso non eguagliano la complessità del pensiero[;] perché per esprimere un guizzo personale, spesso non conforme a realtà prestabilite, dobbiamo ricorrere a strutture invece concordate, preconfezionate, pena l'essere eternamente incompresi. La cosa buffa è che lo saremo sempre e comunque, perché se è vero quello che sosteneva Dante, allora il contenuto della nostra mente sarà sempre incompatibile, almeno in parte, con la forma che ci è concesso dargli tramite le risorse linguistiche a nostra disposizione. E questo ci farà sempre e comunque restare almeno in parte incompresi. La soluzione? Beh, a meno che non si diventi tutti innovatori, è difficile attualmente, o comunque in tempi brevi, modellare nuove forme convenzionali del linguaggio affinché si adatti ai nostri pensieri, i quali, in quanto noi individui singoli, unici e distinguibili, saranno pari almeno al numero di abitanti della Terra, perché credo che non sia rischioso affermare che ogni essere umano, nei limiti delle proprie capacità [come li percepiscono gli] altri -perché poi magari non è mica detto che anche chi è affetto da certe patologie [che affliggono] il pensiero non [sia] in grado di pensare- [non sappia pensare. I]nsomma, [… credo possiamo reputarci] tutti in grado di formulare almeno un pensiero in tutta la nostra esistenza, indipendentemente dalla nostra età e da quelle eventuali condizioni mentali che si dice possano limitarci in qualche modo. Per cui, appunto, a meno che fossimo in grado di formulare un pensiero ed esprimerlo con un linguaggio o, meglio, uno strumento, non convenzionale, intelligibile [però] a tutti, ma proprio a chiunque, allora, ahimé, temo resteremo sempre, in parte, incompresi. E allora che fare? Beh, mi viene da dire che l'unica risposta sensata che riesco a trovare a questa domanda è: take a leap of faith. Insomma, se non abbiamo validi motivi per non fidarci di quello che ci dicono le persone, specialmente le persone care, [il che rende l'eventualità ancora più remota -almeno in teoria] l'unica cosa da fare è fidarsi, essere sicuri che non tutto, [che] la maggior parte delle cose che ci vengono dette, specie se sono positive, sono dette solo come contentino. A meno che non ci siano gravi motivi per cui agire diversamente sarebbe altamente deleterio per almeno una delle parti e a maggior ragione se si sa di essere di fronte a una persona schietta, beh, allora it should be a more than justified leap of faith."

Detto ciò, non ho affatto la certezza di aver parlato per la maggioranza e, anzi, trovo la mia posizione più che opinabile. Ma, d'altronde, se non lo fosse, non persevererei a postarla qui, per quanto poco o abbastanza o molto interessante la si possa trovare. 

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